Colloquio di lavoro: ci sono domande che devono rimanere fuori?

Colloquio di lavoro: ci sono domande che devono rimanere fuori?

Il colloquio di lavoro è un passo fondamentale nel processo di selezione del personale. Per una persona che si candida ad una posizione aperta, il primo incontro con quella che potrebbe diventare l’azienda in cui lavorerà va affrontato con preparazione, equilibrio e consapevolezza. Durante il colloquio, tra un candidato o una candidata e l’azienda si stabilisce un dialogo reciproco in cui entrambe le parti cercano di valutare se vi è un’adeguata corrispondenza tra le esigenze dell’una e le abilità e competenze dell’altro/a.

Per comprendere se vi è un allineamento tra le aspettative del datore di lavoro e le aspirazioni del candidato/a, tutte le domande sono lecite?

No: ci sono domande che non andrebbero fatte, che toccano aspetti legati alla propria sfera personale, familiare e alle quali non bisogna sentirsi obbligati a rispondere. Le richieste di un/a bravo/a selezionatore devono avere sempre come obiettivo quello di conoscere la persona che ha davanti, valutando le sue competenze e come possono essere impiegate efficacemente in azienda senza discriminare o violare la sua privacy. Domande che toccano la sfera privata legata al proprio credo religioso, allo stato di salute fisica o psicologica, all’orientamento sessuale, alle proprie opinioni politiche, all’appartenenza sindacale, alla disabilità, all’età, al genere, alle proprie origini o che fanno riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza non devono essere poste.
L’articolo 27 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna – Dlgs 198/2006 è molto chiaro, vietando domande come “È fidanzato/a?”, “È sposato/a?”, “Quanti figli ha?”, “Ha intenzione di avere figli?” non solo in un colloquio di lavoro ma anche quando si affronta una selezione per accedere ad attività di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale. Eventuali deroghe sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva. È in virtù di questo articolo e del principio di parità che lo ispira che in tutti gli annunci di selezione o nei concorsi pubblici leggiamo la formula «dell’uno o dell’altro sesso», fatta eccezione per i casi in cui quest’ultimo sia un requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione. Cosa che, in realtà, è ammessa unicamente nell’ambito delle attività della moda, dell’arte e dello spettacolo dove, in molti casi, la selezione di candidati o di candidate è essenziale per mostrare un abito prodotto o recitare una parte in teatro, al cinema o in televisione. Sempre secondo il Codice delle pari opportunità, le domande inopportune sullo stato di maternità o paternità, sia naturale che adottiva, riguardano anche la richiesta di esplicitare informazioni su come si gestisce la propria famiglia come ad esempio la presenza o meno di una baby sitter o dei nonni che possono accudire eventuali figli.

Chiedere durante un colloquio di lavoro informazioni sulle proprie idee politiche, sulla propria fede religiosa e sulla propria nazionalità od origine è vietato in relazione al Dlgs 215/2003 – Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

Anche lo Statuto del Lavoratori vieta chiaramente “al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.

Le normative per affermare le pari opportunità e intervenire contro le discriminazioni sul lavoro non riguardano solo l’Italia: anche negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e in Germania esistono interventi per prevenire le discriminazioni.

Perché almeno una volta nella vita, in un colloquio di lavoro la maggior parte delle persone si è sentita porre domande discriminatorie come queste?

È evidente come queste domande non portino il datore di lavoro o il recruiter a conoscere dati rilevanti per valutare le competenze, le capacità e le esperienze del candidato/a in vista di un inserimento in azienda. Oltre a mettere a disagio la persona sottoposta ad esame, a volte, le modalità con cui il candidato o la candidata risponde a queste richieste possono però indirizzare le scelte organizzative seppur fondandole su motivi discriminatori.

Nella maggior parte dei casi queste domande nascono dall’idea che, ad esempio, la situazione coniugale o familiare possa essere di ostacolo alla capacità di svolgere un ruolo professionale impegnativo; che il periodo di assenza dal proprio posto di lavoro per maternità/paternità significhi una perdita di competenze del lavoratore o della lavoratrice e dell’investimento fino ad allora fatto dall’azienda; che una persona con figli o con genitori anziani debba farsi carico dei familiari perdendo la capacità di investire sul lavoro etc. Per molte piccole aziende la paura di assumere una lavoratrice e doverla sostituire nel giro di un anno o due è un grande limite, economico e non solo.

La situazione è resa difficile anche da un contesto culturale e sociale poco favorevole a chi si occupa del lavoro di cura e che fa fatica ad accettare ed estendere modelli lavorativi che garantiscono un buon equilibrio tra vita privata e lavoro a tutti e a tutte, così come in altri Paesi europei si è fatto. Ad esempio, in Italia è idea comune che, nel caso della presenza in famiglia di bambini o anziani, sia la donna a doversi assentare dal lavoro quando si ammalano o hanno bisogno di cura. Del resto, nel nostro Paese si ritiene spesso quasi impossibile conciliare la creazione e la cura di una famiglia con una vita professionale di successo.

Va detto anche che non sempre i reclutatori intendono discriminare il lavoratore o la lavoratrice che hanno di fronte ma pongono domande legate alla sfera privata in modo ingenuo e senza alcun intento negativo, con l’obiettivo di risultare amichevoli e informali e mettere a proprio agio la persona che hanno davanti.

In altri casi, le aziende vogliono davvero sapere se la risorsa che stanno conoscendo sarà in grado di dedicarsi giorno e notte al lavoro, interpretando gli aspetti più personali come indicatori di quanto la persona possa sacrificare sull’altare del lavoro. Alcuni recruiter sono interessati a valutare il carico di energie impiegato che nella loro prospettiva viene sottratto a quanto è necessario nel lavoro. In questi casi, avere consapevolezza di quelle che sono le domande vietate in un colloquio può diventare un elemento di valutazione dell’azienda che si sta conoscendo. Questi comportamenti possono essere interpretati per capire il tipo di ambiente lavorativo e l’attenzione che l’organizzazione pone alle tematiche legate alla genitorialità, all’accudimento e più in generale al cosiddetto work life balance.

Come rispondere ad un/una recruiter che pone domande discriminatorie?

In casi del genere, è importante rispondere in modo educato e professionale. Si può cercare di riportare il focus del colloquio sulle proprie competenze e abilità, sulle caratteristiche del lavoro offerto eludendo la domanda discriminatoria. Un’altra opzione è quella di scegliere di mettere in dubbio la pertinenza della domanda osservando di non voler discutere della propria vita privata od osservando quanto essa esuli dalla descrizione del lavoro per cui ci si è presentati.
Unicamente nei casi in cui ci si senta a proprio agio nel sostenere il colloquio, si può anche decidere di rispondere alle domande illegali poste dal selezionatore. Forse l’HR o il datore di lavoro che sta conducendo le selezioni ha posto queste domande in modo ingenuo e senza alcun intento discriminatorio. In generale, se ci si sente sicuri/e, è bene comunque far osservare l’inopportunità della domanda: se, nel caso personale specifico, potrebbe non incidere rispetto al proprio accesso al lavoro, in altri colloqui ad altre persone la stessa richiesta potrebbe essere alla base di scelte discriminatorie. Promuovere una cultura di parità ed uguaglianza è compito di tutti noi.

La trasparenza del colloquio di lavoro a sostegno della parità tra i lavoratori

Nella primavera del 2023, il Parlamento ed il Consiglio europeo hanno dato una ulteriore spinta a garanzia di colloqui e annunci di lavoro non discriminatori, mettendo fine al segreto retributivo e rafforzando il diritto di lavoratori e lavoratrici ad avere informazioni chiare sugli stipendi. L’obiettivo della Direttiva 2023/970 – a cui tutti gli Stati membri dovranno adeguarsi entro giugno 2026 – è quello di ridurre il divario salariale di genere nell’Unione Europea, fenomeno individuato come uno dei principali ostacoli all’eliminazione del divario retributivo di genere (o Gender Pay Gap) che nel 2021 si attestava in Europa intorno al 13%. In altre parole, l’indicatore indicava come, per ora prestata, le donne guadagnassero in media il 13% in meno rispetto agli uomini.
Nonostante il principio della parità salariale fosse già sancito dai trattati europei (articolo 157 TFUEdirettiva 2006/54/CE), la sua applicazione è rimasta molto limitata in parte anche a causa di una mancanza di trasparenza che impedisce alle persone che subiscono una discriminazione retributiva di contrastare il fenomeno e presentare ricorso.
In base alle nuove norme, i datori di lavoro avranno l’obbligo di fornire alle persone in cerca di lavoro informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla fascia retributiva dei posti vacanti pubblicati, riportandole nel relativo avviso di posto vacante o comunicandole prima del colloquio di lavoro.
Ai datori di lavoro sarà inoltre fatto divieto di chiedere ai candidati e alle candidate informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro.
Una volta assunti, i lavoratori e le lavoratrici avranno il diritto di chiedere ai loro datori di lavoro informazioni riguardanti i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore oltre ai criteri utilizzati per determinare la progressione retributiva e di carriera, che devono essere oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.